È il 23 Ottobre 1936, siamo a San Cipriano d’Aversa (CE), nasce Mario Diana da una famiglia di contadini, che tramanda con genuinità valori semplici e profondamente importanti – quelli che forse oggi perdiamo di vista e che con molta probabilità rappresenterebbero uno dei modi migliori per crescere generazioni di esseri umani nel senso più profondo del temine. Dignità del lavoro, legame con la propria terra, sacrificio, gratitudine non sono parole scoordinate tra loro, sono parole che forgiano la crescita di Mario Diana, ucciso dalla Camorra per la sola colpa di non volersi piegare ad alcun compromesso, ad alcun ricatto, a niente che ledesse la propria integrità morale. La Camorra – così come la Ndrangheta – sanno scavare ed essere incisive infiltrandosi tra i meandri dei tessuti sociali più disparati: quelli della gente comune, nelle piccole cose, nei grossi affari, nelle amministrazioni, corrompendo ma anche obbligando: non ci sono mezze misure, o inviti o esortazioni amicali per chi viene preso di mira dai gruppi mafiosi, e l’economia è diventata sempre più – con il passare del tempo – una delle vie preferenziali per operare. E quando la mafia incontra resistenza raramente media; ma punisce e uccide.
Mario Diana – nel sacrificio di chi viene dal “basso” – ha sempre trovato nel lavoro la libertà di essere se stesso, con una bontà, umiltà, generosità d’animo disarmanti. Sin da giovane lavora, riesce a farsi strada nel settore agricolo e ad aprire un’impresa legata al trasporto della pietra e della sabbia; a 26 anni compra il primo camion, il suo lavoro e la sua dedizione cominciano a dare i frutti più belli per chi trova nella dignità la migliore via ed alternativa allo schiavismo di occupazioni indesiderate, mal pagate, insoddisfacenti. Raggiunge alte vette, collabora con aziende nazionali quali Montedison.
La grandezza d’animo è qualcosa che va al di là di ciò che si ha, l’umiltà diventa ricchezza dove l’uomo che ha di più non divide, ma moltiplica, e Mario – dopo il tragico terremoto che aveva colpito la Campania – mise a disposizione i suoi mezzi gratuitamente per i soccorsi. È il momento giusto per insistere, il cuore dell’uomo perbene freme e singhiozza davanti al ricatto dell’uomo corrotto, della mafia.
È una lotta, è un duello dove non si combatte a mani nude, né da soli. È una partita già persa nel campo, ma anche la vittoria più grande che Mario Diana potesse lasciare non solo alla sua famiglia – una moglie e quattro figli – ma ad intere comunità. Due colpi di un fucile semiautomatico calibro 12. Il primo al torace, il secondo alla testa da distanza ravvicinata. Doveva insegnare, quel gesto subìto, doveva rappresentare il potere di una mafia che non perdona, che comanda e non lascia libero spazio a gente che non ha paura, che non vuole sottostare all’illegalità, al malaffare, ma si nutre di valori veri come aveva scelto di fare Mario.
È triste, è ingiusto, è un orrore, ma la mafia esiste ancora e sempre: adesso raramente sparge sangue per strada, ma si infiltra nelle cose più comuni, laddove non vediamo o facciamo finta di non vedere, nelle nostre scelte, talvolta nell’omertà di una parola non detta, in ogni posizione non presa, in ogni abuso osservato e ignorato. La mafia non è solo quello che ci raccontano, la mafia è un sangue che prima di arrivare alle arterie, passa per i capillari, nasce nel piccolo delle vite, è un atteggiamento, una forma mentis, purtroppo a volte anche in taluni insegnamenti. Poi c’è l’altro piatto della bilancia: quanto dolore può dare vedere un uomo morire per non svendere i propri valori? E che insuccesso può essere per una società ‘civilizzata’? Nel 2013 la famiglia dà vita alla Fondazione Mario Diana, ne mantiene vivo il ricordo e ne promuove i valori che hanno contraddistinto la sua vita.
C’è una piccola storia che mi lascia riflettere con un pizzico di emozione e un sorriso sul volto. Il maestro zen – accortosi dell’imminente morte di un ragno in acqua – corre a salvarlo da una morte certa cui non voleva assistere inerme. Nel salvarlo, il ragno lo morde, ma lui continua a tentare di tirarlo fuori dall’acqua. Il maestro sta male a causa di quel morso che lo ha avvelenato, ma si salva. Molto tempo dopo, si ripresenta la medesima situazione. Il maestro si avvicina al ragno e lo salva. Il ragno lo punge. Così, il suo discepolo gli chiede il motivo del gesto, conoscendone le conseguenze. Il Maestro risponde che la sua natura è quella di salvare il ragno, quella del ragno di mordere.
Ecco, snaturarsi dà dolore esattamente come lo dà morire per la libertà, ma è di questi esempi e di queste scelte che abbiamo bisogno se vogliamo oggi credere che possiamo vivere nutrendo una speranza che possa diventare progetto e infine costruzione di una società migliore.
Non è facile e a volte costa troppo, ma è l’unica via che ci resta da percorrere se vogliamo vivere da esseri umani.